Prologo

Camminando lungo la strada sterrata che, per mano al Ceronda, parte dal Basso e arriva all’infinito, Evelina era immersa nei suoi pensieri. La mattinata era fredda e la terra esalava il suo fiato nebbiolino dando l’impressione di voler in quel modo riscaldare ciò che la sovrastava. Le piaceva camminare su quel terreno scosceso di pietre e fango freddo dove anche il fiume gelato taceva; ogni anfratto del fiume, ogni spiaggetta, ogni campo arato o abbandonato, il guado, il lungo muro della Mandria, la casetta a ridosso dello stesso muro, il cimitero, ogni luogo che vedeva le ricordava qualcosa: l’appuntamento con il fidanzato segreto che il paese non doveva sapere, il tedesco sepolto di nascosto dai partigiani negli anni della guerra, i bombardieri che si vedevano dalla cima della montagna dopo esserci arrivati con il fiatone, di corsa perché erano così belli, il fuoco che devastava il Musinè e che faceva paura solo a vederlo, il terremoto che in questo paese non c’è mai stato, ma lo sentiva ancora nelle ossa. Tutto questo, passeggiando, ricordava Evelina. Ma non erano ricordi suoi, non era la sua vita. Erano le cento vite diverse vissute da ogni donna di questo paese.

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